Il capitano con la sua cagnolina, a Stolp
Ci fermammo alcuni giorni per riparare i danni avuti durante il volo ed anche per aspettare che la Città di Milano, la nave che la Marina Italiana aveva messo a nostra disposizione e che portava allo Svarbald i materiali di rifornimento, giungesse alla baia del Re.
Alle ore 12,45 del 6 maggio, giungemmo alla nostra base polare, dove era ad aspettarci la Città di Milano.
Iniziammo subito i preparativi per i voli di esplorazione della calotta polare. Il nostro programma prevedeva almeno 3 voli: uno nella regione della Terra del Nord e uno o due voli al Polo e alla regione ad esso circostante.
In effetti compimmo precisamente tre voli, ma il primo di essi durò soltanto otto ore o poco più perché in prossimità di Capo Nord le condizioni meteorologiche, già cattive, peggiorarono, e questo fatto, insieme con un guasto riscontrato nei comandi dei timoni, mi consigliò di tornare alla base.
Il secondo volo , durato senza interruzione, quasi esattamente tre giorni, si svolse sulle isole settentrionali dell'Arcipelago Francesco Giuseppe e nella regione della terra del Nord.
In totale esplorammo circa 50.000 chilometri quadrati di zone dove l'occhio umano non era mai penetrato...
Alle 10,20 del 18 maggio atterrammo alla Baia del Re, dopo 69 ore di volo. Dal punto di vista aeronautico, il secondo volo polare deve considerarsi, tenuto anche conto della relativa piccolezza dell'aeronave, come uno dei più arditi compiuti in quel tempo.
Concesso qualche giorno di riposo all'equipaggio, la mattina del 21 maggio cominciammo a prepararci per il prossimo volo per il quale, a decidere la partenza, aspettavo solamente che L'Istituto Geofisico di Tromsö ci segnalasse una situazione meteorologica abbastanza favorevole.
Il programma del volo era questa volta di raggiungere Capo Bridgman all'estremità settentrionale della Groenlandia e di là far rotta per il Polo, seguendo presso a poco il 27° meridiano all'ovest di Greenwich.
Lo scopo era di esplorare una zona ancora sconosciuta esistente al nord della Groenlandia. Al Polo, se le condizioni meteorologiche fossero state favorevoli, ci saremmo ancorati al pack, la banchisa di ghiaccio, per farvi discendere un gruppo di due o tre persone, ad eseguire misure oceanografiche e di magnetismo terrestre.
Partimmo alle 4,28 del 23 maggio con sedici persone a bordo, più la mia cagnolina: tutti e tre gli scienziati, i tre ufficiali di marina; l'ingegnere; il capotecnico; i motoristi; l'attrezzatore; il radiotelegrafista e il giornalista.
La prima parte del volo dalla Baia del Re alla costa settentrionale della Groenlandia, procedette senza difficoltà, a parte la nebbia che ci accompagnò senza interruzione.
Venti minuti dopo la mezzanotte, all'inizio della giornata del 24 maggio, gli ufficiali, che con il sestante osservavano il sole, gridarono: "Ci siamo!". L'aeronave era sul Polo. Discendemmo sotto la nebbia e lentamente, girando in tondo, ci avvicinammo al pack.
Pochi uomini al mondo potevano dire di essere stati ben due volte al Polo Nord. Pochi uomini. Vi eravamo riusciti soltanto in sette: sei italiani e uno svedese.
Fu però impossibile attuare la discesa sui ghiacci, a causa del forte vento.
Lasciammo il Polo alle ore 2,20, tenendoci sui 1000 metri di quota.
A intervalli di tempo, un forte crepitio, come di uno scoppio, turbava d'improvviso la calma: pezzi di ghiaccio che, proiettati violentemente dalle eliche, colpivano i fianchi della nave, producendovi piccoli strappi. Questi venivano cercati e prontamente riparati. Di ghiaccio se ne era formato dovunque all'esterno della nave, in quantità assai più abbondante delle altre volte.
La mattina del 25 maggio, trenta ore dopo aver lasciato il Polo, la lotta aspra contro il vento proseguiva senza un attimo di tregua. Avanzavamo a stento, sbandando ora da un lato ora dall'altro.
Avremmo dovuto, già da parecchie ore, avvistare le coste settentrionali dell'arcipelago dello Svalbard, ma ancora non riuscivamo a vederle.
Navigavamo tra i 200 e i 300 metri di altezza. L'aeronave era sempre leggera, sicché, per mantenerla in quota si doveva tenerla leggermente appruata. Alle 10,30 del 25 maggio ordinai ancora una volta di misurare la velocità. Effettuata la misura, mi recai nella parte anteriore della cabina e mi affacciai allo sportello di destra, tra il timone di direzione e quello di quota, per controllare l'altezza alla quale ci trovavamo. Mentre attendevo a questa misura, sentii dirmi concitatamente:" Siamo pesanti!". La nave era fortemente appoppata. L'inclinometro segnalava un pendenza del 15%, ciò nonostante, si discendeva rapidamente. Il dirigibile accrebbe la velocità, e si appoppò di tanto che sentii scivolare le cose poggiate sul pavimento della cabina di comando.
Intuii che non vi era più nulla da fare.
L'urto contro il suolo era inevitabile: si trattava solo di attenuarne le conseguenze.
Vidi i massi di ghiaccio ingrandirsi ed avvicinarsi sempre più. Un istante dopo urtammo. Fu uno scroscio spaventoso. Mi sentii colpire alla testa. Fui come compresso, schiacciato. Chiaramente senza nessuna sensazione di dolore, sentii che alcune membra mi si rompevano. Poi qualche cosa che dall'altro mi ruinava addosso mi fece cadere con la testa in giù. Istintivamente chiusi gli occhi e con assoluta lucidità e freddezza pensai: "Tutto è finito".
Erano le 10,33 del 25 maggio.